Abbandono

Silente si nasconde
Il desiderio latente
Poi di colpo si ridesta
E mi trafigge il cuore
Ardente dilania la carne
Furtivo decide di andarsene
E abbandona questo involucro
Sopra a un letto sfatto
Fugge al calar della notte
E io lo osservo inerme
Il mio costato sventrato
Respiro con affanno
Piango lentamente
In questa agonia perpetua
Volevo gridargli il mio rimpianto
Esortarlo a non abbandonare
Chi a lungo ha nutrito
Ogni suo appetito infausto
Volto lo sguardo piano
Prima di perdere ogni senso
Tutto intorno si fa buio
Mi chiedo ora dove vada
A chi chieda rifugio
E semmai un giorno
Farà di nuovo ritorno
Se si insinuerà ancora dentro
Come un soffio violento
Che improvviso arriva da lontano

Come pietre nel buio

Viscidamente strusci
la tua anima in pena
come acido corrodi
entri nei miei sogni
ti vedo morto
in bianco e nero
dopo una notte
di passione violenta
ti agiti nella colpa
mi vomiti addosso
le tue scuse patetiche
pretendi non chiedi
mi immergi in una vasca
di ghiaccio rovente
indici premuti sulla mia gola
pulsante di vita
il tuo è sussurro di vendetta
indifferente al mio pianto
insisti la tua avanzata
sulle gambe sul collo
mi getti l’agguato
la cera che brucia
vuoi rovinare tutto
e poi benzina e fuoco
e fumo e più nulla
tossisco e riemergo
non respiro ma mi accorgo
di due occhi che fissano
soddisfatti lo spettacolo
che il mio corpo ferito
offre alla notte inerme
sono pietre nel buio di pece
ombre riflesse di un lampo di luce:
mi chiedo se ora, per davvero,
sia finita per sempre.

Non dimentico, non perdono.

Strappami il cuore
dallo in pasto ai leoni
sparami alle tempie
e bucami il cervello
ne uscirà una nube
nera come la pece
oscura come la morte
esaurita dalle mancanze
e dai disastrosi colpi
subiti da questo corpo stanco
in questo maggio vedovo
di sole abbagliante
diluvia fuori e dentro ormai
e sono investita da mille gocce
di lacrime mai versate
pensieri e sensazioni
si mescolano insieme
come questa pioggia
che osservo incessante
nel ticchettio del tempo
e l’insoddisfazione
di un fischio sibillino
chissà se pensi mai
alla lacerazione buia
scalfita nella pietra
inflittami da quel coltello
che chiamasti indifferenza
ma io sapevo bene
quale fosse il vero nome:
null’altro che falsità.

Farewell insane perception

Scricchiola lento
l’avanzo di mostro
su per la via del non ritorno
striscia atterrito
sul pavimento infetto
quasi con fare sospetto
rantola inspira e ancora sputa
l’ultimo insano colore:
è ghiaccio di pesco
rosa rinsecchita
quella che schiaccia
con la sua ombra pesante
è infinita stanchezza
di cuore pulsante
oggetto sanguigno
senza pudore
urla e geme dal dolore
in cerca d’aiuto
lo guardo dall’alto
del mio trono d’onore
sorrido sorniona
dimentico ogni rancore
ma non porgo la mano
bensì mi alzo e lo calcio
fin fuori al terrazzo
ed eccolo sciogliersi
al calore della luna
si schianta dal balcone
giù al cuore del giardino
osservo stranita
non rimane traccia alcuna
del freddo patito
e del gelido alito
infertomi sinora:
distacco totale
è la parola giusta: addio. 

Riflessione #2: La tormenta del dubbio. Ovvero come l’attesa annienta me stessa.

Ci risiamo. Il nodo è sempre quello, sempre lì da sciogliere.
Continua la discussione/riflessione tra me e me stessa e mi scuso con i miei lettori, che ne usciranno probabilmente annoiati, ma ho bisogno di questa terapia del ‘nero su bianco’.

Sono decisamente stufa, stanca, delusa e disillusa. Ho creduto così tanto e fermamente di costruirmi il giusto cammino e di averlo intrapreso con così tanta tenacia e costanza da essere imbattibile ed instancabile…e ora, a più di metà di questa strada mi rendo conto di aver lasciato importanti pezzi di me un po’ sparsi ovunque.

La prima metà di me (che da qui innanzi chiamerò E) incolpa me stessa: ‘hai perso troppo tempo’, ‘dovevi fare di più quando ne avevi l’opportunità’ ‘non avresti dovuto perderti dietro a hobby e sport e sei stata troppo via in viaggio di nozze, proprio tu che al massimo massimo ti sei fatta cinquegiorniquattronotti al mare una volta ad agosto’ eccetera eccetera eccetera. E giù a fustigare e incolpare. Come se non mi fossi abbastanza rovinata la vita per lo studio ed il lavoro, come se non avessi investito energie e denaro per uscire da questo circolo vizioso ed omicida del stacanovismo ad oltranza (leggasi tipo Nux Vomica) (che poi chissà se l’omeopatia si basa sulla teoria statistica degli stereotipi).

L’altra metà di me (che da qui in avanti chiamerò MTA) oggi quasi mi pigliava con sé e mi portava via, lontano. In quella bottiglia vuota a farmi cullare in un mare di dolci e succulente fantasie. E maledizione se ci è riuscita! Maledizione perché è piacere e dolore insieme, un po’ come solo certi orgasmi sanno regalare. Piacere perché mi sono stupita di quanto sia riuscita a staccarmi dalla realtà e a concedermi un paio d’ore di totale, completo, inebriante ed appagante relax. Dolore perché…domani dovrò recuperare, e non per senso del dovere puro, ma perché non v’è alternativa se non il fallimento.

FALLIMENTO.

Ho il terrore di questa parola. Eppure sono qua, il venerdì sera, alle ventidue e trenta (che sono diventate quasi 23 e 20), che mi arrabatto cercando in maniera disperata e ridicola – a metà appunto – di lavorare. A metà, perché MTA è invece totalmente assorta ed impegnata  a vagare con la mente, con questo blog e con mille e più gustose e succulente prelibatezze mentali. Mi sento ancora troppo giovane per arrendermi alla vita di miseria-stringi-cinghia-che-non-si-arriva-a-fine-mese che sto affrontando invece tutto d’uno colpo, tutto d’un botto da un po’ di mesi a questa parte. Ora e adesso io voglio GODERE. Della vita, della notte, dell’amore, della mia giovinezza finché c’è, della trasgressione della notte e del sesso, del brivido eccitante che solo quella lieve ebrezza mi sa regalare e che mi disinibisce, chiudendo la prima metà di me stessa fuori dal buco della serratura. Voglio ascoltare quel fremito che parte dal basso ventre e si irradia a tutto il mio corpo, teso, come sulle spine ad aspettare di assaggiare di nuovo i frutti calorosi della primavera. Voglio ancora sognare con la mente perversa e “sbagliata” (sarebbe più corretto dire invertita) che mi ritrovo, dolci e morbidi seni su cui dipingere a forti pennellate l’ardore dell’incanto che solo io so quanto forte posso sentire, di fronte alla bellezza e all’estetica perfetta di un corpo femmineo. Tutto questo finché la notte non cala le sue palpebre sulle mie, stanche e offuscate dall’eccessiva esposizione agli schermi lcd, alla carta stampata e a qualunque altra diavoleria con cui E ha a che fare tutto il giorno.

RISVEGLIO MATTUTINO.

E poi inesorabile arriva il mattino, che non è più carico di vivaci speranze e curiosità, ma si porta addosso ancora l’olezzo della fatica del giorno precedente, la pesantezza derivante dall’avere ancora un ricco conto da saldare. E è sgomenta, perché al mattino MTA l’ha abbandonata completamente, se ne è andata, ha riaperto la serratura e l’ha lasciata di nuovo sola: c’è solo rimorso e rammarico e rabbia. Svaniscono le dolci immaginazioni, scompare l’audacia e la spavalderia, si fanno largo la sfiducia, l’abattimento, il senso totale di impotenza, ed enorme, il senso di colpa per l’avventatezza della scelta passata.

Il filo si è rotto, ormai lo so. Che si tratti dell’incedere senso di colpa che avanza infelice a passo felpato verso i meandri della mia subcoscienza o che si tratti piuttosto dell’insoddisfazione, continua e perpetrata (qualunque sia la mia scelta lavorativa). Come E, so che qualcosa è inesorabilmente perduto e non si recupera più, si può solo cercare di accelerare il passo, limitare i danni, assorbire i colpi inferti dall’esterno, cercare di non soccombere. E attendere.

ATTENDERE.

Mi tocca attendere nel dubbio dell’incertezza, priva di qualsivoglia proposta alternativa: non resta che aspettare tempi migliori diversi in cui, forse, accadrà anche che sarà E di nuovo a prendere il sopravvento e saprà risollevarsi dalla situazione, mentre il dubbio che mi attanaglia (vedere riflessione #1) si fa via via sempre più gigante.